Addis Abeba/Kombolcha/Lalibela
Quando pensi a viaggiare, si materializzano subito le valige. Devi tirarle fuori, spolverarle e riempirle di tutto quello che ti può servire. Fai l’elenco dei medicinali, del vestiario, delle scarpe, di tutto quello che fa parte del tuo mondo e che lo devi chiudere dentro quel contenitore di cinquanta centimetri. Ma come al solito non ci sta tutto e allora riprendi l’elenco e cominci a depennare, fino a che ti ritrovi con una decina di scatolette per il raffreddore, la diarrea, la tosse e tante altre scatolette. Di vestiti ne scegli alcuni, quelli più necessari. Mappa, dizionario e poi le tue cremine, dentifricio, spazzolino e una piccola boccetta di profumo, non si può mai sapere. Ok, si parte!
Etiopia. Addis Abeba dall’alto è veramente spenta, m'immaginavo una metropoli con grattaceli, luci colorate, scie luminose.
No, Addis Abeba è un cumulo lampeggiante solo al momento dell’atterraggio. Tutto attorno è diradato e timidamente pulsante. Sono in Africa.
All’arrivo mi ritrovo un ragazzo timido e ossuto di vent’anni, non di più. Ha tra le mani una sciarpa in cotone candido, decorata sul fondo. Me la dona con un sorriso smagliante. Che bella accoglienza. L’auto, una jeep fuoristrada 4×4 tutta attrezzata, boccheggia con piccoli sussulti e sbuffi di cherosene. All’interno il mio unico compagno di viaggio, il mio autista. Le valige sopra, io sotto un cielo nero puntellato di infinite stelle che dal finestrino mi ritaglia uno scenario magico.
Inizia il viaggio. Io e il mio silenzioso autista.
Il sole arriva rapido. Ecco l’Africa. I colori sono abbaglianti. Il verde è veramente verde, non avrei mai detto essendo un paese descritto dai media come carente d’acqua. Le strade sono asfaltate e deserte. Ai bordi rigogliosi di vegetazione, i pastori raccolti nei loro pastrani blu cobalto. I volti si illuminano quando vedono arrivare nuova gente. Non chiedono nulla, sorridono e mi salutano. Il loro cammino è diritto, scandito dal ritmo del loro bastone. Tutt'intorno il silenzio e il nulla. Solo l’altopiano che si presenta timido in tutta la sua eleganza.
Lungo la strada i greggi accompagnano i bimbi che si impongono con urla e corse impazzite. La strada sale, in bilico su altitudini nascoste. Il sole è alto e la strada continua a salire. Sono sopra al mondo. L’aria è frizzante e la luce ha una limpidezza innaturale. Questo è il paradiso. Le vette dei 3.000 metri sono in lontananza, ora siamo oltre i 4.000. Non manca l’ossigeno, ma la luce è violenta.
All’improvviso un gruppo di bimbi con capigliature stravaganti, alcuni sono rasati mentre altri, soprattutto le femmine, hanno cespugli arruffati pettinati in trecce fitte fitte. Indossano gonne lunghe e magliette scucite, poco pulite, ma i loro volti sono di una bellezza che incanta. Quando si accorgono della mia presenza è tutto un canto, salti di gioia, sorrisi e voglia di toccarmi. Mi porgono le mani, vogliono toccarmi e sentire la mia pelle, fresca. La gioia rimbomba nell’aria di un cielo blu limpido, assoluto.
Mi fermo e salto con loro, cercando di intonare i loro canti. Sono piccoli pastori, non hanno nulla con loro a parte le caprette: l’emozione mi sgorga viva sulle guance, il cuore batte forte in petto e la pancia si contorce per il calore improvviso. Vorrei fermarmi con loro, ma la strada è lunga e devo arrivare prima del tramonto.
La strada continua con un saliscendi di vette, spaccature primordiali, rocce che si elevano maestose. Gli uccelli si alzano in volo, fino a bucare le nuvole bianchissime. Il silenzio è incredibile, mi rimbomba nella testa.
Ci fermiamo per pranzo in un piccolo ristorante locale. All’interno una giovane donna, bellissima. Disarmante. Mi accompagna verso il tavolo dove intravedo, dietro un telo appeso, corpi squartati di animali gocciolanti. Mi viene un conato, ma lo ricaccio dentro e cerco di guardare altrove. Mi concentro sul viso di un ragazzo coperto da una garza a strati che gli copre quasi i piedi. Il suo sguardo è basso, avvolto in un turbante, ed è accompagnato da un senso di rispetto nei miei confronti.
Annuisco con il capo e all’istante un sorriso gli illumina il viso. Mi piacerebbe potergli parlare, chiedere da dove viene, dove è diretto, ma sparisce con un cenno di saluto. E’ un prete, credo sia diretto verso la mia stessa meta. A piedi. Lo guardo allontanarsi nel suo candido mantello. Apre un originale parasole colorato da broccati sontuosi e piccoli pendenti circolari dorati.
Il mio autista ha ordinato al posto mio e mi arriva una birra ghiacciata in bottiglia. Brindo con il mio taciturno e affidabile compagno di viaggio. Dopo alcuni minuti, mi viene servito il miglior piatto della zona. Una base molle e grigia con sopra diverse varietà di carne, legumi e verdure cotte. Copio il mio vicino di tavolo. Ne prendo un pezzo e lo riempio di carne, lenticchie e carote. Il bruciore alla gola è immediato: “berberè” mi viene detto, e le risate rimbombano nella stanza fatta di lamiera. Il pasto, anche se piccante, è delizioso: un ottimo insieme di proteine, carboidrati e fibre.
Ripartiamo. Arriva il tramonto all’improvviso, credo di essermi assopita per alcune ore. Arriviamo in un hotel della zona. Molto basico, ci si deve adattare. Il personale è gentile e mi fa accomodare nella mia camera. L’aria è fresca, invitante. La notte è scesa da qualche ora e lo spettacolo del cielo è sorprendente. Il nero della notte è penetrante, le stelle sono ovunque, infinite punte di diamante, altissime, scintillanti, vibranti.
Al primo mattino il sole arriva tiepido, l’aria è quasi fredda. Ripartiamo. La meta è ormai vicina. Il mio viaggio prosegue nel silenzio assoluto, rotto solo dai saluti e dai canti dei pastori che incontro lungo la strada. Il mio autista guida con prudenza, attento a non prendere buche, sassi e asini che all’improvviso attraversano la strada. La polvere copre alcuni tratti. Cerco di assecondare i bruschi movimenti della jeep. Il tragitto è difficile, mi viene da star male. Canto, canto una canzone…. “Volare, oh oh...” il mio autista è rapito dal suono della mia voce e finalmente ride, lo vedo riflesso nello specchietto. E’ meno teso, si lascia andare ed intona “oh… oh… volare….”. Fantastico, un etiope che canta in italiano. Arriviamo che è già notte.
Scendiamo su strade sterrate. L’aria è calda. Guardo il cielo. E’ il cielo dell'Africa, unico e primordiale. E’ il cielo di Lalibela.
E’ l’alba quando mi sveglio, non voglio perdermi nulla di questo giorno. Il mio autista ha veramente un’aria distrutta, mi ha trasportata per quasi 500 km su strade non sempre facili da percorrere. Lungo il tragitto si cominciano a vedere file di donne in abiti bianchi avvolte da garze candide che coprono anche le loro teste. E’ un lungo serpente bianco in cammino.
Il sole sta per sorgere e in lontananza si odono i primi canti liturgici. Sembrano amplificati dal silenzio circostante. Scendo e mi rendo subito conto che l’atmosfera è magica. I suoni dei tamburi, i canti, le vesti bianche l’odore dell’incenso, la spiritualità delle genti, mi sembra di entrare in una nuova dimensione, in un’altra epoca. Mi fermo, la testa gira. Le emozioni salgono dal ventre più profondo fino a sciogliersi in lacrime liberatorie. E il pianto è liberatorio, una rinascita dell’anima e del fisico, il battesimo con la fede.
Alcune persone mi osservano e mi fanno un cenno con il capo, un segno di rispetto assoluto per la mia nuova consapevolezza. Mi sento meglio, riprendo il percorso a piedi su di una terra antica di color mattone intenso. L’odore che si respira è quello di essenze e di resine bruciate. Attraverso stretti cunicoli che all’improvviso mi portano in chiese scavate nella roccia. I loro ingressi sono imponenti.
Rimango in attesa e con un cenno il mio compagno di viaggio mi fa capire che devo togliere le scarpe e coprirmi il capo. All’interno morbide volte e piccole navate, tutte affrescate con cherubini, immagini di Santi, episodi della Bibbia sapientemente affrescati, quasi a ricordare un gusto bizantino. Il suono dei tamburi scandisce i miei passi, i preti si ritrovano in piccoli cerchi e con il volto abbassato su testi antichi. La luce è fioca, ma è sufficiente per notare il loro stato ipnotico. Alti, ossuti, curvi con rosari e croci copte strette su di una mano. Attraverso altri cunicoli, altri ingressi, l’ estasi si ripete quasi allo sfinimento.
Esco, il cielo è di un azzurro accecante, l’aria è leggermente calda. I tamburi si avvicinano, sempre più vicini e la ritmica si fa più veloce. Salgo su un piccolo promontorio, il suono mi entra dentro la testa, i canti sono ovunque, mi fermo, trattengo il respiro. Il cuore mi esce dal petto alla visione che ho difronte. Mi mancano le forze.
Ho davanti San Giorgio, la chiesa che da anni sognavo di visitare. La sua forma a croce è maestosa, sintesi di un immenso lavoro compiuto in nome del sacro volere divino. Lo sguardo scende verso il basso, decine di metri sotto, dove un gruppo di preti vestiti con mantelli giallo oro e riparati da para-soli confezionati con preziosi tessuti, cantano accompagnati da imponenti tamburi antichi. Scendo quasi correndo per la smania di poter toccare la terra e la roccia con le mani. La sfioro, la tocco, la annuso, avvicino il volto e ne sento il tempo, i popoli, la vita che pulsa nelle radici della cristianità, i secoli che non sono mai passati.
Si sono fermati ora, in questo giorno a Lalibela.
Barbara Stivanin