Se dico la parola "vodù", qual è la prima cosa che vi viene in mente? Probabilmente molti di voi, a ragion veduta, visualizzeranno l’immagine della bambolina trafitta dagli spilli che per tradizione siamo soliti associare a un’entità “oscura e astratta”, o sbaglio? E in un certo senso, se me lo concedete, qualcosa di oscuro ce l’ha per tenere soggiogate tante donne - soprattutto nigeriane - che vengono portate in Italia con la promessa di un lavoro e poi, una volta qui, costrette a battere i marciapiedi per proteggere i loro cari da qualche diabolico rito vodù. Qui però entriamo in una sfera che non ha nulla a che vedere con il vodù e che riguarda invece aspetti legati alla bestialità della natura umana per cui è il caso di tirare il freno a mano e partire con il tema della settimana: il Festival Internazionale del Vodù - che si celebra il 10 Gennaio di ogni anno a Ouidah, sulla costa del Benin - e il legame tra Africa e Americhe.
Perché, c’è un legame tra le due cose? – si chiederà qualcuno.
Certo che c’è, perché il 10 Gennaio - oltre a celebrare il risveglio delle divinità vudù - si rievoca una delle pagine più sanguinose della storia africana, quella della tratta degli schiavi che da Ouidah venivano spediti verso il Nuovo Mondo incatenati nelle stive delle navi negriere. E così il vodù, nato e sviluppatosi sulla costa atlantica di Benin, Togo, Ghana e Nigeria, varca l’oceano e affonda le sue radici nelle Americhe.
Per la sua posizione strategica, Ouidah era uno dei punti di partenza privilegiati per la tratta degli schiavi e a ricordare questo triste capitolo della loro storia c’è la Porte du non Retour - la Porta del non Ritorno - che migliaia di persone attraversarono per intraprendere il lungo viaggio oltreoceano e prestare manodopera gratuita al servizio delle corone spagnola e portoghese.
Molte di quelle persone non videro mai la terraferma ma quelle che ce la fecero non dimenticarono né le loro radici né la loro identità religiosa, tutt’altro. Vi si aggrapparono con un tale vigore da radicarla nella terra ospitante – ma non ospitale - al punto che oggi quasi si dimentica la vera origine del Vodù.
Costretti a depositare davanti all’Arbre de l’Oubli i loro oggetti di culto – si riteneva che l’albero avesse potere amnesico - gli schiavi deportati assimilarono i santi cristiani alle divinità africane che a seconda delle destinazioni assunsero modalità e dimensioni differenti, conservando però i valori di fondo. A riprova di ciò, la presenza del Candomblé in Brasile, della Santería a Cuba, del Vodoo ad Haiti e dell’Obeah in Giamaica.
Il fatto poi che a distanza di secoli si celebri ancora la ricorrenza ci dice che la ferita inferta non ha mai smesso di sanguinare. Non è un caso quindi che accanto alla Porte du non Retour si erga la Porte du Retour, edificata in un secondo momento per incoraggiare i discendenti della diaspora africana a fare ritorno nella madre patria.
Il festival è quindi l’occasione, per i figli lontani, di mantenere vivo il contatto con la terra d’origine. Migliaia di adepti attraversano l’Oceano per partecipare al processo di ri-africanizzazione del culto ancestrale, elevato a religione di stato negli anni Novanta ed esercitato oggi dal 60% della popolazione, spesso fondendosi con pratiche delle religioni monoteiste del paese.
L’istituzione del Festival Internazionale del Vodù – che a dispetto di quel che si pensa non ha nulla della magia nera e della stregoneria ma mira a portare pace, armonia, abbondanza e salute evocando la morte, la vita e l’aldilà - ha quindi lo scopo di rivalorizzare il culto del vodù e riaffermare i valori tradizionali del paese, mantenendo vivo il legame tra identità religiosa e identità nazionale.
Se vi interessa approfondire l’argomento, sul mio blog trovate una serie di racconti ispirati alla mia partecipazione al Festival avvenuta nel 2010.
Diana Facile
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