Paola Scaccabarozzi, viaggiatrice appassionata di culture antiche, ritorna sul nostro blog. Questa volta ci racconta il viaggio che l’ha portata alle radici del buddismo himalayano, con vista sulle vette più alte del mondo.


ll Mustang era un sogno.
Quella terra lì, come tutta l’area geografica che guarda l’Himalaya e ne viene attraversata, suscita in me un richiamo speciale e genera una sorta di dipendenza.
Cercavo da tempo qualcuno che mi desse la possibilità di accedere al mitico Regno di Lo, l’ultimo Tibet.
Quel lembo di territorio che è riuscito, più di altri, a resistere agli attacchi esterni che fossero l’aggressione cinese o la contaminazione dettata da un modo di vivere lontano da quello originario delle aree tibetane.
Ma in Mustang da soli non si entra.
Per preservare la sua integrità e per garantire qualche guadagno a un’economia povera ed essenziale, sono necessari permessi e una guida autorizzata.
Il che significa burocrazia e costi anche piuttosto elevati, soprattutto per arrivare fino all’Upper Mustang, la zona più remota, confinante con il Tibet.
Così appena ho visto che un tour operator lì ci andava e pure in occasione di un festival, non ho avuto dubbi e mi sono iscritta. Ho partecipato quindi al tour di maggio organizzato da Viaggi Tribali.
Al cospetto della dea Kumari, sotto i balconi più belli del Nepal
Il viaggio ha inizio a Kathmandu. La capitale del Nepal, seppur molto cambiata nel corso degli anni, caotica e, a tratti, stancante, ha mantenuto integro il suo cuore profondo.
A me quella città, che avevo visitato già qualche anno prima e che sorge a 1.500 metri d’altezza e rappresenta il primo contatto con il Paese, piace sempre da morire. Appena riesco, ci torno.

Ad accoglierci questa volta, Kris, la guida locale. Kris mi colpisce da subito, moltissimo ed è solo l’inizio di un rapporto prezioso, destinato a proseguire nel tempo. Sorridente, accogliente, è veloce, attento.
Ha la capacità e la grande dote di comprendere le esigenze dei viaggiatori prima che si manifestino. Lui che vive vicino al campo base dell’Everest, le montagne le conosce davvero e nella sua testa il territorio del Nepal è una mappa mentale ricca di aneddoti e dettagli.
Anche Kathmandu è per lui un luogo noto e conosciuto persino nei meandri. Ma, come sempre, la visita, soprattutto se il tempo a disposizione è limitato perché il fulcro del viaggio è un altro, implica delle scelte.
Si parte, dunque ovviamente dal centro della città, Durbar Square. Danneggiata dal devastante terremoto dell’aprile del 2015, la piazza resta un luogo molto affascinante. È piena di gente e il vecchio Palazzo Reale, Hanuman Dhoka, ne occupa un’abbondante porzione.
A sud si erige il Kumari Bahal, un edificio a tre piani a mattoni rossi al cui interno si trova il cortile Kumari Chowk. Le sue balconate in legno sono caratterizzate dalla presenza di raffinatissime decorazioni, probabilmente le più belle di tutto il Paese.
Ma a rendere speciale questo luogo è la sua funzione: qui abita la dea Kumari. Si tratta della “dea vivente”, un culto risalente all’età medievale che consiste nella venerazione di una bambina ritenuta l’incarnazione della dea Taleju (Durga per gli indiani).
La Kumari, venerata da tutta la popolazione nepalese, è il simbolo del peculiare sincretismo tra buddismo e induismo della valle di Kathmandu.
Scelta da un consesso di astrologi e sacerdoti, la bimba, di età compresa tra i tre e i cinque anni, appartiene alla casta degli Shakya, che sono buddisti. Le sue caratteristiche sono molto particolari e la selezione durissima.
Viene studiato il quadro astrale delle candidate e analizzata la presenza di 32 segni di buon auspicio. Per essere “proclamata dea”, la bambina deve superare un’ulteriore prova: condotta in una stanza del palazzo, semibuia, in mezzo alle teste di capre e a 108 teste sanguinolente di bufali sacrificati e spaventata da uomini mascherati da demoni, non deve piangere o impaurirsi.
Superata la prova, la bambina, venerata e amata dal suo popolo, vivrà in clausura, tranne sporadiche occasioni celebrative, fino al menarca o fino al manifestarsi di eventuali altri sanguinamenti.
A quel punto smetterà di essere dea e tornerà a condurre una vita comune.
Dalla “kora” alla “Varanasi dell’Himalaya”: nel cuore della Kathmandu sacra
Kathmandu vista dall’alto dà l’idea di quanto sia vasta e di quanto il territorio circostante sia stato urbanizzato nel corso dei decenni. Salire sulla collina dove sorge uno dei luoghi più iconici dell’intero Nepal è un modo per prenderne atto.
Swayambhunath sorge lì, osserva la città e trasuda di sacro. Noto anche come il “tempio delle scimmie”, data la quantità di animali presenti, risale probabilmente al V secolo. Era dunque luogo di culto animista, anche prima dell’avvento del Buddismo.
Ma Swayambhunath non è “solo” uno stupa simbolo dell’immensamente complessa cosmologia buddista, ma una parte di un’incredibile quantità di santuari, oggetti sacri, simboli tantrici del buddismo tibetano, ruote di preghiera.
Lì numerosi esuli tibetani, fuggiti dal “Paese delle Nevi” a causa dell’invasione cinese, compiono la “kora” (circumambulazione completa del colle) insieme ai pellegrini nepalesi. Lì, bisognerebbe starci per ore. Ma Kathmandu è densissima e vedere l’essenziale richiede tempo.
A circa cinque chilometri dal centro di Kathmandu, c’è uno dei più grandi stupa al mondo che ti osserva. È Boudhanath, il più importante monumento del buddismo tibetano fuori dal Tibet.
I pellegrini che ci girano intorno in senso orario emozionano a ogni sguardo. Anche loro compiono la kora, come là in alto, sulla collina.
Capisci da subito che è un atto religioso antichissimo, perpetuato da secoli e che lì arrivano genti da ogni dove. Molti sono i pellegrini tibetani che, dopo giorni e giorni di cammino, si prostrano in uno dei luoghi più sacri della terra.
Li riconosci immediatamente: i volti sono una cartina geografica arsa dal sole, le donne hanno trecce lunghissime, gli uomini rivelano assonanze somatiche persino con le popolazioni andine.

Osservare queste genti induce a pensare a tutte le possibili connessioni legate alle antiche migrazioni attraverso lo Stretto di Bering. Intanto le prostrazioni intorno al gigantesco stupa tolgono il fiato. Il loro è un atto di reverenza totale.
L’induismo è il tempio di Pashupatinath, la piccola Varanasi dell’Himalaya dove il fiume è sacro è il Bagmati. Qui si bruciano i corpi, qui si trovano santoni seminudi. Questo è il luogo più sacro dei seguaci di Shiva in Nepal. È rumore, confusione, colori, profumi e odoracci.
Ci sono i ghat sulla riva del fiume, come a Benares in India, ci sono templi e pellegrini indù, moltissimi. Pashupatinath è un teatro da guardare. Difficile, anche in questo caso, andarsene.
Vasai e danzatori mascherati: la città con templi a pagoda risorta dalle macerie
Lungo la strada che da Kathmandu porta a Bhaktapur, cittadina patrimonio UNESCO, ci si ferma nel villaggio newari (popolazione originaria della valle di Kathmandu) di Thimi.
Gli abitanti sono specializzati nella produzione di vasi di ceramica. Percorrere le sue stradine permette un approccio ancora più immediato con un popolo cordiale e sorridente.

A Bhaktapur, una città con templi a pagoda che apparve “straordinariamente bella” anche ai primi viaggiatori che lì ebbero la fortuna di arrivarci, saltano all’occhio le ristrutturazioni post terremoto (sempre quello fortissimo del 2015 che colpì la valle). Costituiscono, infatti, un ottimo esempio di resilienza e impegno. Gli artigiani in Nepal hanno un’abilità straordinaria.
A Bhaktapur c’è festa. Sulle strade e nelle piazze si danza. Sono i ballerini gatha mascherati che si esibiscono durante il “Kayta puja”, una cerimonia tradizionale nepalese.
In maniera del tutto fortuita, abbiamo l’opportunità di seguire il flusso, di osservare la gente, di apprezzare le maschere, di infilarci in mezzo alla sfilata.
Saltando su e giù sulle nuvole dell’Himalaya: l’ascesa verso il tetto del mondo
Il quarto giorno di viaggio, il volo è la mattina presto. “Buddha Air”, è per me la temutissima compagnia aerea con destinazione Pokhara. Non c’è altra scelta: in Nepal ci sono solo compagnie che fanno parte della Black List, quella degli aerei che non rispettano le norme di sicurezza europee.
Sono seduta accanto a Giuseppe, l’accompagnatore di Viaggitribali proveniente dall’Italia. È un modo buffo per imparare a conoscersi, condividere i miei sguardi di terrore quanto le turbolenze ci fanno saltare su e giù dalle nuvole che guardano l’Himalaya.
Pokhara è atmosfera tropicale, così sono la vegetazione e l’umidità che la contraddistinguono. È il punto di partenza di molti trekking e da lì, quando il cielo è limpido, si vedono svettare due Ottomila: l’Annapurna (8.091 metri) e il Manaslu (8.163 metri).
Ci sono le nubi e Pokhara diventa una gradevole sosta con un giro sul lago, propedeutica all’inizio del percorso che ci porterà in alta quota. Che meraviglia l’incontro sulla riva con un gruppo di donne indù, coloratissime!
Mattina presto, le jeep che si arrampicheranno sulle strade del Mustang sono cariche. Gli autisti salgono in cima, perché i bagagli stanno sul tetto. È un lavoro quotidiano durissimo il loro: sollevare valigie e borsoni, alcuni decisamente pesanti, sistemarli in maniera accurata perché non cadano, difenderli dalle intemperie, coprendoli con teli spessi e impermeabili.

Poi iniziano le ore di guida che non sembrano finire mai. Strade impervie, pericolose, strette, con precipizi terrificanti e attraenti. La solita vecchia storia dell’attrazione-repulsione. Si sobbalza, spesso cadono massi. Sulla strada per Jomsom, una ruspa interrompe il percorso, mentre gli uomini lavorano per riassestare la strada dopo una piccola frana. Si prosegue.
Tardo pomeriggio, sosta a Marpha. Ma quanto sono buone le mele del Mustang? Le mele di Marpha sono le più gustose del Nepal, anche una volta essiccate.
Siamo a più di 2.600 metri in un villaggio fatto di vie strette, case bianche di pietra, bandiere di preghiera ovunque. In fondo, un monastero, due bambini monaci lanciano un aeroplanino di carta sulla valle.
Jomsom è l’ultima visione serale. Il Dhaulagiri, un gigante alto 8.167 metri, si tocca con un dito.
Con le mani giunte in mezzo alle cime più alte del mondo: la sacra strada verso il capoluogo
C’è un luogo in cui, lo diceva quello che fu il più grande orientalista del nostro Paese, il professor Giuseppe Tucci, “l’Induismo, lentamente ma senza soste, si insinuò in questa roccaforte del Buddismo, piazzando l’immagine di Vishnu accanto a quella del Buddha in una conca assolata ai piedi delle montagne del Mustang”.
Questo luogo è Muktinath (3.760 metri), uno dei posti più venerati di tutto l’Himalaya. Pellegrini di fede buddista e indù salgono la ripida scalinata che conduce al tempio induista con le sue 108 fontane e una vasca sacra di acqua gelida.
Accanto al Buddha in mezzo alle altissime cime. Ovunque gente, asceti, colori, volti, mani giunte e lumini.

Qua e là proseguendo in direzione nord, verso il confine tibetano, piccole abitazioni sparse nel nulla, case dipinte di bianco con la legna sul tetto, muretti a secco, chorten (reliquiari e rappresentazioni tridimensionali dell’universo buddista) e monasteri buddisti.
Il paesaggio è un incanto. Il Mustang è il luogo dei superlativi assoluti.
Dirigendosi a settentrione, si arriva a Ghami. Si trova qui il “muro Mani” più lungo del Nepal. Sulle pietre che lo compongono sono incise preghiere e il mantra dei mantra, “Om mani padme hum”. È la potenza del mondo buddista tibetano che si espande nell’aria.
Ancora più in là, Tsarang, col suo vasto labirinto di campi, filari di salici e case separate da muri in pietra. È una città di cui anche Michel Peissel, esploratore e grandissimo conoscitore del mondo tibetano, narrò meraviglie.
Lui che in Mustang ci arrivò con un permesso speciale nel 1974, quando l’ingresso agli stranieri era ancora vietato (e lo sarebbe stato fino al 1992), descrisse il villaggio di Tsarang, con grande emozione.
Si tratta della seconda città per importanza della regione dove l’afflato religioso si percepisce ovunque, dall’antico chorten al monastero. Qui dominano le vette di Nilgiri, Tilicho, Annapurna e Bhrikuti. Il cielo è limpido, l’aria tesa. Tutto risplende.
Si va oltre, in direzione di quello che è il fulcro del viaggio, l’obiettivo del nostro andare: il capoluogo del Mustang.
Tiji Festival a Lo Manthang: 52 danze che trascinano nella cultura tibetana
“Lo Manthang si presenta come una dimenticata favola d’Oriente”, così la descrisse Piero Verni, giornalista, scrittore e studioso del mondo himalayano, ne “L’ultimo Tibet”. “Un viaggio nel Mustang”, quando la vide nel 1992 e così appare ancora, a trent’anni di distanza.
Quelli che per lui erano i segni del vecchio Tibet, chorten, monasteri, mulini di preghiera, muri mani, targiog (bandiere di preghiera), il Palazzo Reale, lo sono ancora.
E ogni giorno, soprattutto nelle prime ore pomeridiane, qui si gioca quella testarda battaglia contro il vento, di cui narrò sempre Verni.
È l’aria purissima e sferzante dell’alta quota. Siamo a 3.900 metri.
Lo Manthang, l’antica capitale del Regno del Mustang, è un posto dal sapore antico, di quelli che ti sembrano davvero appartenere a un’altra dimensione, spaziale e temporale.
Stradine che si intersecano, antichi monasteri di scuola Sakya (una delle quattro principali del buddismo tibetano) con affreschi originali, uomini e donne che camminano con la Mala (rosario meditativo utilizzato per tenere il conto dei mantra, ma anche oggetto sacro e cimelio di famiglia) tra le mani.
Animali che ritornano a tarda sera, mantra che si dissolvono nel deserto di alta quota. Silenzio la mattina presto, interrotto solo dall’inconfondibile profondo suono della puja (cerimonia liturgica del buddismo e induismo) fatto di campane tibetane, tamburi, voci di monaci.
La presenza del sacro è pervasiva attraverso i vicoli labirintici di questo luogo remoto. Lo Manthang, vista dall’alto, basta salire su una qualunque terrazza, tiene incollati per le sue meraviglie.
Bandierine di preghiera ovunque, tetti antichi che sanno di poesia. Poco più in là, le montagne del Tibet.
A Lo Manthang, dal ventisettesimo al ventinovesimo giorno del terzo mese del calendario lunare tibetano, si svolge il Tiji Festival, il termine che viene da “ten che”, significa “la speranza del Buddha Dharma che prevale in tutti i mondi”.

Si tratta di un complesso rito di purificazione che precede la stagione del raccolto e ha lo scopo di proteggere gli uomini ovunque si trovino e di purificare il paesaggio, le case e la gente del Mustang da influenze negative.
La festa, che dura tre giorni, risale al XV secolo e si svolge nella piazza principale di Lo Manthang accanto al palazzo reale.
Qui si radunano le genti del Mustang per assistere alle cinquantadue danze cham, tipiche del buddismo tibetano, mentre il primo giorno del festival viene esposto un antico Thangka, ossia uno stendardo buddista, vecchio di almeno tre secoli e che raffigura Padma Sambhava.
Le danze cham sono un tripudio di colori, stoffe pregiate, maschere e ornamenti e parte integrante della tradizione tantrica del buddismo tibetano.

È la lotta tra il bene e il male, che ricorda come la divinità Palchen Dorje Chono riuscì a sconfiggere un demone malvagio, il perfido Tharpa Nagpo, dopo molte battaglie e una lunga serie di danze.
Qui Kris e Giuseppe ci lasciano il tempo di osservare, di entrare a far parte di questo mondo incredibile. Restiamo tutti e tre i giorni.
È un tuffo nella cultura tibetana, è uno sguardo continuo perché anche l’osservazione del pubblico costituisce un’esperienza.
Il loro modo unico e speciale di entrare in contatto con il divino, ammalia. Complessi concetti filosofici diventano di portata immediata, lo si vede attraverso gli occhi della gente. È, all’ennesima potenza, il ruolo giocato dagli affreschi medioevali nelle nostre cattedrali.
Ma qui lo spettacolo è talmente vivo, totalizzante che appartiene alla categoria dell’indescrivibile. Il buddismo tantrico fa parte della vita di ogni giorno.
Osservo una donna con un bimbo, due anziane che chiacchierano, le rughe di un uomo che indossa gli occhiali ricevuti in dono da un alpinista occidentale, i monaci con i loro cappelli. E le mani, ognuno le muove recitando preghiere.
L’ultimo dono del Mustang
Lasciare Lo Manthang è durissimo. È un luogo che ti trattiene.
A lenire la fatica di andarsene, un viaggio di ritorno verso Kathmandu che è di nuovo un tripudio di bellezza. Basta guardarsi intorno tra deserti di alta quota, rocce che cambiano colore, strade sconnesse, simboli religiosi sparsi ovunque.
Il percorso per scendere verso il basso Mustang è comunque lungo e faticoso.
L’arrivo a Kagbeni, la porta del Mustang arrivando da sud, è una visione. Non ci siamo fermati all’andata, bando il tempo veloce del ritiro dei documenti per proseguire verso l’Upper Mustang. È tempo di stare, almeno una notte.
Siamo a poco più di 2.800 metri in un villaggio situato alla confluenza tra i fiumi Kali Gandaki e Jhong, il cui nome è la testimonianza dell’intersezione dei due corsi d’acqua: in nepalese “kag” significa “roccia” o “blocco” e “beni” vuol dire “sacra unione”.
Il Kali Gandaki, menzionato nell’antica epica sanscrita del Mahābhārata, uno dei più importanti poemi indiani, è sacro agli indù.
Kagbeni è induismo e buddismo insieme. Lo si capisce subito, basta guardarsi un po’ attorno.
Ci sono alcuni Lama tibetani di fronte a una vecchia guest house che è diventata un negozietto di oggetti sacri e beni di prima necessità.

La gente li attendeva e si accalca festosa all’ingresso del monastero. È festa e noi ci finiamo in mezzo, come spesso accade da queste parti, in maniera del tutto casuale.
È l’ultimo dono del Mustang, prima di proseguire il viaggio verso Kathmandu.
Paola Scaccabarozzi - giornalista professionista
Vuoi conoscere il Mustang e partecipare al Tiji Festival?
Fino a poco tempo fa, il Mustang era inaccessibile agli estranei; solo in anni recenti si è aperto al mondo esterno. Questo isolamento ha permesso al popolo del Mustang di mantenere intatto il proprio stile di vita e patrimonio culturale.
Tra paesaggi mozzafiato e monasteri arroccati sulle rocce, il Mustang custodisce gelosamente una cultura millenaria.
Ancora oggi, l’accesso al Mustang è regolato da permessi speciali, rendendo ogni visita un privilegio raro.
A maggio 2026, con Viaggitribali potrai essere tra i pochi a poter dire di aver visitato questo regno segreto.
L’itinerario “Nepal Mustang, Tiji Festival” è un incontro con la cultura e le tradizioni del buddismo himalayano.
Tappa dopo tappa, potrai avvicinarti alle radici culturali della popolazione di etnia tibetana, con le maestose vette dell’Himalaya come sfondo.
Il viaggio culminerà con l'incredibile Tiji Festival, uno dei momenti più intensi del buddismo del Mustang.
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