Secondo la tradizione, il caffè nasce in Etiopia nell’XI secolo e viene poi portato nello Yemen dove acquisisce la denominazione araba di qahweh (Kaffa). Facciamo subito un passo indietro e scopriamo insieme qualcosa di più sulla storia della bevanda conosciuta oggi universalmente con il termine caffè – nelle varianti di cafè, kofye, kahawa, kaffa o kave, giusto per citarne qualcuna – ma che in Etiopia continua a essere chiamata bunna, come alle origini.
Si racconta di un giovane pastore di Kaffa di nome Kaldi che un giorno constatò che le sue capre, generalmente pigre, si erano eccitate all’improvviso dopo aver mangiato alcune strane bacche. Decise quindi di assaggiarle e scoprì che erano stimolanti. La storia, o leggenda, continua con l’arrivo di un monaco che di fronte allo stato di euforia di Kaldi le provò a sua volta: quella notte, durante la preghiera, si sentì più sveglio e con la mente più attenta che mai, così decise di trasmettere il segreto delle bacche magiche a tutti i monaci dei monasteri vicini affinché potessero rendere a Dio le proprie preghiere senza essere disturbati dal sonno.
Ben presto tra i monaci d’Etiopia si diffuse l’usanza di masticare la bacca di bunna: per molti secoli dalla sua scoperta, il caffè fu mangiato e non bevuto. Le bacche si assumevano intere o sminuzzate e mescolate al ghi (burro bollito), pratica ancora in uso nelle terre più remote delle province di Kaffa e Sidamo. Un altro utilizzo era quello con la polpa fermentata e un mix prodotto dai frutti essiccati e dai chicchi: la pratica di ricavare un infuso dai chicchi arrostiti fu introdotta solo nel XIII secolo e si diffuse poi rapidamente nel resto del mondo.
Oggi il caffè è uno dei prodotti più esportati e redditizi dell’Etiopia.
La cerimonia del caffè in Etiopia
Il tipico pasto etiope è seguito dall’elaborata cerimonia del caffè: dopo aver deliziato gli ospiti con injera e wot, una delle donne di casa dà inizio al rituale.
Sparge erba fresca per terra in un angolo della stanza per portare dentro un po’ della fragranza e della freschezza che c’è fuori, poi si siede su uno sgabello basso posto accanto a un braciere di carbone e accende l’incenso che accresce il fascino dell’atmosfera. Di solito prepara qualcosa da spiluccare (spesso popcorn) distribuendolo fra gli invitati, poi arrostisce i chicchi verdi di caffè, agitandoli in una scodella concava per farli tostare uniformemente.
Quando i chicchi sono tostati al punto giusto torna al tavolo e agita la scodella bollente affinché tutti ne possano sentire la fragranza, poi scompare nella parte inferiore della casa da cui arrivano i rumori del mortaio e del pestello che polverizzano i chicchi. La donna riappare infine con la tradizionale brocca d’argilla tonda e panciuta alla base e il lungo collo laterale che termina in un beccuccio: riscalda l’acqua della brocca, vi aggiunge il caffè e porta tutto a bollore. Lo versa infine nelle tazzine senza manico e aggiunge lo zucchero accompagnato spesso da un ramoscello di ruta: a quel punto il caffè è pronto per essere servito.
Il gusto del caffè in Etiopia è corposo, intenso e non amaro.
Quando tutti i presenti hanno terminato il loro caffè, la donna raccoglie le tazze, aggiunge altra acqua e prepara il secondo giro, usando gli stessi chicchi.
La tradizione vuole che se ne faccia anche un terzo, se gli ospiti lo desiderano. In Etiopia si dice che il primo giro, più forte, è per i padri, il secondo per le madri e il terzo, il più debole, per i bambini.
Lasciarsi tentare dal terzo giro è molto facile, specialmente dopo un pasto impegnativo, con il rischio di rimanere svegli tutta la notte. Ma siamo in Etiopia, dove i ritmi sono lenti e vale la pena dormire di giorno e restare svegli la notte per vedere le stelle di questa Africa antica e magica.