Paola Scaccabarozzi, giornalista professionista e appassionata di culture antiche, torna sul nostro blog per raccontare il suo viaggio in Pakistan, questa volta nel nord del Paese.


L’aereo atterra a Islamabad quando è ancora buio. Ad attenderci c’è la guida locale, Amjad, che ci accompagnerà con grande dedizione lungo tutto l’itinerario che lui conosce a menadito dato che abita nel nord del Paese, più precisamente nella Valle dell’Hunza. Sarà lui a offrire un valore aggiunto al nostro viaggio.
Alle prime luci dell’alba, la capitale del Pakistan appare verde e ordinata con i suoi viali dritti, le sue strade silenziose e i suoi palazzi moderni.
Progettata nel 1961 da Constantinos Doxiadis, architetto greco di fama internazionale, Islamabad porta già nel nome il segno della sua devozione.
Non è dunque un caso che in città si trovi la moschea di Shah Faisal, una delle più grandi del mondo. Bianca e lucente, linda, e immensa.

Alla mattina, intorno alle 9.30, fa già caldissimo e, a piedi scalzi, lo si percepisce ancora di più. Il pavimento brucia.
Qua e là, sparsi, uomini e donne ci guardano incuriositi, come accadrà nel corso di tutto l’itinerario. Qui turisti occidentali non ce ne sono, e lungo il viaggio ne incontreremo pochissimi.
Gli uomini indossano lo Shalwar Kameez, un abito tradizionale del subcontinente indiano in uso in paesi come il Pakistan, l’Afghanistan, l’India e il Bangladesh, generalmente a tinte pastello.
Le donne hanno il volto scoperto e abiti colorati. Tutti anelano a fare selfie. È il buongiorno del Pakistan.
Si prosegue verso la vicina Rawalpindi, che è caos all’ennesima potenza. È il contraltare di Islamabad.
La città-sorella, ben più antica, è un brulicare infinito di genti e merci insieme
La sensazione è di far parte di un’umanità chiassosa e, ancora una volta, sorpresa dalla nostra inattesa presenza.
La sera è uno sguardo dall’alto su Islamabad. Il punto panoramico Daman-e-Koh regala una vista a 360 gradi sulla città. La zona è affollatissima dai locali. Incontriamo occhi meravigliosi che ci osservano. Si scattano reciprocamente foto, è un susseguirsi di richieste. Siamo gli uni per gli altri una grande attrazione.
Direzione Naran: montagne sempre più imponenti, panettieri e dialoghi di gesti
La mattina dopo il viaggio inizia verso il nord del Paese, direzione Naran, 2400 metri di altezza. È una destinazione turistica molto apprezzata dai facoltosi pakistani di pianura che hanno la possibilità di concedersi una vacanza al fresco.
Si passa attraverso un luogo noto per essere stato la residenza di Osama Bin Laden, anche se i locali ci credono poco. È Abbottabad, una cittadella militare abitata da circa 120.000 persone e situata ai piedi delle montagne himalayane.
Qui il territorio cambia, le montagne si ergono sempre più imponenti.
Quello di Naran è un bazar affollatissimo, anche la sera.
Noi arriviamo dopo una lunga giornata di trasferimento. La folla che incontriamo per strada, quasi esclusivamente uomini che indossano il Pakol, il cappello dell’etnia Pashtun diffusa in Pakistan e Afghanistan, ci guarda sorpresa. Il traffico si ferma per scattare foto e improvvisare un dialogo fatto di gesti.

Intanto i numerosi panettieri che si affacciano lungo la strada principale sfornano di continuo un pane gustosissimo. I forni del Pakistan dovrebbero essere riconosciuti come Patrimonio dell’Umanità!
Nel cuore del Gilgit-Baltistan: al cospetto del Nanga Parbat, la "montagna del diavolo"
La mattina successiva la sveglia è all’alba. Ci attende un tragitto pazzesco verso la regione autonoma del Gilgit-Baltistan, un luogo a sé perché caratterizzato da una storia complessa e da una situazione geopolitica che accomuna questo territorio alla regione contesa del Kashmir.
Il Gilgit-Baltistan è un luogo memorabile per le sue altissime cime, dal K2 al Nanga Parbat, solo per cintarne due. Qui si trova anche il ghiacciaio Baltoro, il più lungo al di fuori delle zone polari.
Qui convogliano le tre gigantesche catene del Karakorum, dell’Himalaya e dell’Hindu Kush.

Il Gilgit-Baltistan è una terra antichissima e luogo di transito di popoli e culture. Fu territorio tibetano, via della Seta e Islam.
Transitiamo attraverso il Babusar Pass, un passo a 4.175 metri di altezza e proseguiamo in direzione Gilgit.
Lungo il tragitto, a un certo punto, c’è un cartello che segnala quella che fu l’antica Via della Seta. Fa impressione perché evoca istantaneamente narrazioni che si sono susseguite nel corso dei secoli.
Proseguendo incontriamo un’altra indicazione che mostra il punto di osservazione del Nanga Parbat, quel “mostro” violento e inerme a cui si sono sacrificati numerosi alpinisti, tra cui molti tedeschi negli anni Trenta e Quaranta del Ventesimo secolo, a seguito dell’ondata nazista alla conquista della vetta.
La “montagna nuda”, questa la traduzione dall’Urdu, o “Diamir”, ossia la “montagna degli dei” secondo la traduzione dal Sanscrito o la “montagna del diavolo” per gli Sherpa. Con i suoi 8.126 metri è la nona montagna più alta del mondo e la seconda più difficile da scalare dopo il K2.
Purtroppo, però, il tempo gioca a sfavore e il cielo coperto non permette la visione della cima. Solo un angolino compare da lontano. Il vento è molto violento quando si arriva al punto di intersezione tra Karakorum, Hindu Kush e catena Himalayana. Questo amplifica la sensazione di trovarsi in mezzo a una natura potentissima.
L’arrivo a Gilgit è una passeggiata nel suo animato bazar, passando attraverso il vecchio ponte che sovrasta l’omonimo fiume. Camminiamo in mezzo a bancarelle di frutta e verdura, assaporiamo pane delizioso appena sfornato.
Il Buddha di Yshani: un respiro di eternità tra le montagne
Il giorno dopo ammiriamo il Kargah Buddha, un Buddha impresso sulla roccia, conosciuto anche come il Buddha di Yshani. Si tratta di una scultura rupestre alta circa quindici metri che si trova a una decina di chilometri dalla città di Gilgit le cui origini risalgono all’epoca in cui il Buddhismo costituiva la religione dominante nella regione.
Gilgit, infatti, dal III secolo a.C. all’VIII secolo d.C., era un importante centro di pellegrinaggio buddhista in grado di attirare studiosi e monaci da tutta l'Asia.
Il Buddha è emozionante e domina una vallata verdissima.

Lungo la Karakorum Highway, la strada asfaltata più alta del mondo fino alla Valle dell'Hunza
Il nostro viaggio continua verso Karimabad-Hunza seguendo la Karakorum Highway, la strada asfaltata più alta del mondo che collega il Pakistan alla Cina.
Proseguendo, nei pressi di Chalt, si trova il punto, da brividi, in cui 55 milioni di anni fa la placca indiana e la placca euroasiatica entrarono in collisione dando così origine alle montagne del Karakorum.
Nel tragitto verso Karimabad siamo attratti dagli scenari che si susseguono senza sosta guardando fuori dal finestrino dell’autobus. Lo stupore è ovunque.
Dal panorama svetta un forte, quello di Baltit, patrimonio UNESCO ed emblema di quello che fu l’architettura tibetana.
Il custode del forte costituisce a sua volta un’attrazione, complici i suoi incredibili baffi. Credo sia l’uomo più fotografato del Paese!

Karimabad è una cittadina che sorge in mezzo ai giganti. Si chiamano Rakaposhi, Diran, Golden Peak, Lady Finger Peak. Sono vette altissime, a cominciare dal Rakaposhi (in lingua Urdu “Muro Splendente”) che, con i suoi 7788 metri, ci offre una visione da cui è difficile togliere lo sguardo.
Karimabad è una stradina che si inerpica, è l’incontro con una donna minuscola, anziana e sorridente che se ne sta seduta nello splendore a realizzare braccialetti da vendere ai pochi turisti che passano di lì.
La valle dell’Hunza, di cui Karimabad rappresenta la porta d’accesso, è un itinerario lungo la Karakorum Highway che conduce al confine con la Cina.
Lungo il percorso, stupefacente a ogni chilometro, si trova il Lago Attaabad. È di un turchese abbagliante.

La sua origine è recente e traumatica: è nato nel 2010 a seguito di una enorme frana che ha bloccato il corso del fiume Hunza, costringendo centinaia di persone a un lungo isolamento.
Tutto il resto appartiene alla categoria dell’indescrivibile tra vette aguzze e altissime, un lungo ponte tibetano sospeso, quello di Passu, il paesino da cui proviene Amjad, e scenari che appartengono a un’altra dimensione.
Non a caso, la strada Kakarakorum è stata soprannominata “l’ottava meraviglia del mondo” per la bellezza paesaggistica che percorre, per la straordinaria opera di ingegneria che rappresenta e per l’altitudine.
La sua popolazione racconta una storia tutta sua. Gli Hunza, di religione sciita ismaelita (il Pakistan è per la maggior parte sunnita), costituiscono una sacca etnica che parla una lingua propria, il Burushaski che ha solo qualche affinità con la lingua Hurdu, ma che attinge da lingue indoiraniche e pare abbia addirittura affinità linguistiche con il Basco.
Gli Hunza costituiscono, inoltre, un esempio di longevità ampiamente studiato nelle Università di tutto il mondo.
Sarà la loro dieta? Nella valle dell’Hunza ho mangiato le albicocche più buone di sempre e gli abitanti di queste remote valli le consumano abitualmente.
Strade impervie, cieli mutevoli e piccoli gesti di gentilezza
Lasciamo l’autobus e proseguiamo il viaggio su tante piccole jeep scoperte. Le strade in Pakistan, lasciando la Karakorum, rappresentano una sfida quotidiana.
Da Karimabad ci dirigiamo verso ovest, a Gupis, attraverso Gilgit, Punial e Gahkuch.
La consapevolezza delle difficoltà di percorrenza diventa immediata. La strada è bloccata, da subito. Le frane sono la norma, così come normale è attendere che la situazione si sblocchi per minuti o forse ore, chissà.
La coda aumenta, il sole picchia. Tra la folla di locali che attendono di riaccendere i motori, c’è un uomo in moto che vende gelati. Lui conosce le attese e si è organizzato. L’organizzarsi fa parte dello stile di vita del subcontinente indiano e il Pakistan era India a tutti gli effetti fino al 1947.
Si riparte e… il tempo cambia, diventa nuvoloso. Inizia a piovere. La pioggia d’estate da queste parti ha un sapore intenso.
L’aria muta immediatamente il suo odore e ciò che i monsoni possono provocare si manifesta in pochi minuti. La vallata si riempie d’acqua. Altra frana. Poi la pioggia smette, ma siamo di nuovo fermi.
Mi guardo alle spalle e partecipo a una poesia: la catena dell’Hindu Kush illuminata da un arcobaleno, una bimba che prega e un uomo con il cappello in mano.
Si va avanti, ma non è finita. C’è fango da tutte le parti. La gente del posto arriva verso di noi, a piedi scalzi, in mezzo al fango. Qualcuno parla inglese. Ci chiedono, loro bagnati fradici e coi vestiti zuppi e noi sulle nostre jeep, se abbiamo bisogno di aiuto.
Intanto Amjad cerca di capire come procedere perché forse chiuderanno la strada, dato che ci sono massi per terra e perché andare avanti è complicato e… tornare indietro? La maestria e la prontezza di chi conosce davvero il territorio fanno la differenza.
Procediamo e, la sera tardi, arriviamo a destinazione. Ci è andata benissimo. Nel frattempo, la strada era stata chiusa e non saremmo più potuti proseguire.
Chitral: il campo da polo più alto del mondo nel cuore dell’Hindu Kush
Attraverso paesaggi incantevoli, proseguiamo lungo il fondovalle del fiume Ghizer, che si innesta in uno dei rami principali della Via della Seta.
Il nostro percorso è parallelo al corridoio di Wakhan, un sottile lembo di terra che appartiene all’Afghanistan.
A 3.800 metri incontriamo il campo da polo più alto del mondo. Il polo è lo sport d’eccellenza del nord del Pakistan.
Si scende di quota, ma le cime altissime restano sullo sfondo.
Il Tirich Mir (7708 metri), la montagna più alta della catena dell'Hindu Kush, domina Chitral. È la città capoluogo dell’omonimo distretto, situato sulla sponda occidentale del fiume Kunar (chiamato anche Chitral), destinato a confluire nel fiume Kabul.
Chitral dunque non è un caso che sembri una città afghana. Il confine è vicino e il suo bazar, frequentato prevalentemente da uomini, è il luogo in cui si indossano, più che altrove, i cappelli tipici dei Pashtun.
Qui si compera lana di ottima qualità, le botteghe invitano all’acquisto di pashmine e… Qui è anche possibile anche assistere a una partita di polo.
La squadra di Chiitral è la più forte del Pakistan. Il pubblico, tutto al maschile, che assiste allo svolgimento della partita è un tuffo in un’altra dimensione temporale: volti antichi che sembrano usciti da un testo biblico, cavalli che corrono all’impazzata, polvere che si alza.

Uchal Festival: danze, colori e tradizioni dei Kalash nelle valli dell’Hindu Kush
Sono arrivate le giornate del Festival dei Kalash, il fulcro del viaggio.
I Kalash, circa tremila individui, costituiscono ciò che resta dei popoli del Kafiristan, la “terra degli infedeli” secondo i musulmani.
Un luogo mitico e leggendario che, fino alla fine dell’Ottocento, si estendeva dall’est dell’Afghanistan sino alla valle di Chitral.
Oggi i Kalash vivono in tre strette vallate nel cuore dell’Hindu Kush: Bumburet, Rumbur e Birir.
Secondo la leggenda sarebbero “gli ultimi greci dell’India”, i diretti discendenti di Alessandro Magno che nel 326 a.C. attraversò il Kafiristan per conquistare il subcontinente indiano.
Secondo gli antropologi, invece, la loro origine sarebbe legata alla massiccia migrazione indo-ariana dall’Asia centrale al subcontinente indiano, avvenuta tra il 1500 e il 1000 a.C. Insomma, un rebus antropologico evidente anche dalla mescolanza dei caratteri somatici. Occhi azzurri e verdi, volti dalla carnagione chiara si intrecciano a pelle scura e occhi castani o neri.
Mai domati e islamizzati, solo pochissimi si stanno convertendo negli ultimi anni a un Islam sempre più incalzante.
Quello dei Kalash è un popolo fiero, dotato di una lingua propria esclusivamente orale, appartenente al gruppo delle lingue indoariane con vocaboli simili al sanscrito.
Il loro è un credo sciamanico e politeista, in cui fervente è il culto degli antenati.
Il ritmo della loro vita è scandito dal profondo legame con la natura e dalle feste in onore dei loro dei.
Noi abbiamo avuto la fortuna di assistere all’Uchal Festival, che si svolge regolarmente nel mese di agosto per ringraziare per il raccolto.

È un susseguirsi di danze in cerchio, musica e partecipazione sfrenata da parte della popolazione di queste vallate incastonate tra le montagne.
Le donne indossano i loro abiti tradizionali e splendidi copricapo in tessuto, decorati con perline e conchiglie.
Peshawar, bazar polverosi e antichi tesori: la città più afgana del Pakistan
In questi giorni abbiamo l’occasione, grazie alla nostra guida Amjad, di raggiungere un paesino abitato da una popolazione di origine afgana che, circa un secolo fa, giunse in questa terra di confine.
È un assaggio di ciò che sta al di là delle montagne e di ciò che percepiremmo visitando la “più afgana delle città pakistane”: Peshawar.
Peshawar, la roccaforte Pashtun, sembra quella dell’Afganistan di Steve MaCurry: uomini con la barba lunga, pochissime donne e, quelle rare che si incontrano, indossano il burka. Non a caso i talebani sono per la maggior parte proprio di etnia Pashtun.

La scorta, già qualche volta presente nel corso del viaggio, diventa molto più stringente. Non si può uscire dall’hotel se non scortati e, anche durante il giro nell’animato bazar, siamo guardati a vista.
Peshawar ha mantenuto il fascino del luogo di frontiera, polveroso e testimone di quello che fu.
Il suo museo ne è un esempio eclatante. Lì, la cultura Gandhara, che si diffuse in queste terre tra il I sec. a.C e il V d.C., dà il meglio di sé e racconta la sovrapposizione culturale di luoghi pazzeschi che sanno di India, Iran e Grecia.
Un mix culturale complesso che rapisce il visitatore curioso e rende il Pakistan un Paese interessantissimo e ricco di sorprese.