Il Pakistan è un paese etnicamente molto ricco e accanto ai principali gruppi etnici – Punjabi, Pashtun, Sindhi, Saraiki, Mohajir e Beluci - vivono numerose comunità minori ugualmente rappresentative della cultura del paese. Una di questa, la più piccola, è l’etnia Kalash che vive isolata in mezzo alle montagne del Kafiristan, piccola regione a sud del Palmir divisa in due dalla linea di confine con l’Afghanistan nota come linea Mortimer Durand.
La popolazione a ovest della linea Durand è stata violentemente islamizzata nel 1896 e il Kafiristan afghano ha assunto il nome di Nuristan, paese della Luce - dove per luce si intende quella della fede islamica - mentre a est della linea di confine, in terra Pakistana, vivono gli ultimi Kalash Kafiri – circa 3.000 persone - che occupano le valli di Rambur, Brumburet e Birir.
Le origini dei Kalash sono tuttora piuttosto nebulose. L’ipotesi romantica della discendenza dai greci di Alessandro Magno che nella loro marcia verso la valle dell’Indo passarono da queste montagne e vi si fermarono dando vita alla discendenza di individui biondi con gli occhi azzurri si scontra con l’assenza totale di comuni tratti linguistici e culturali e ciò farebbe propendere per un’altra tesi. Ultimamente gli studiosi ritengono infatti che l’etnia Kalash costituisca l’esemplare superstite degli ari – o ariani – che migrando millenni or sono dai monti dell’Asia Centrale scesero nelle pianure del sub-continente indiano e mescolandosi ai preesistenti popoli dravidici diedero origini alle attuali popolazioni dell’India e di tutta la zona.
I Kalash Kafiri - come vengono definiti dai mussulmani per i quali il termine “kafir” significa pagano, infedele, idolatra - conservano intatte le loro tradizioni e la loro lingua e professano una religione politeista secondo la quale ogni dio ha una sua funzione precisa nel cosmo e la natura gioca un ruolo significativo e spirituale nella vita di tutti i giorni. La figura di riferimento per i Kalash è lo sciamano, a metà strada tra il sacerdote e il veggente, che funge da mediatore tra l’uomo e le divinità.
Il ritmo annuale della vita dei Kalash è scandito dai festival che sono i capisaldi delle tradizioni religiose. Momenti di celebrazione, di condivisione e di sacrifici per ringraziare le divinità dei doni ricevuti ma anche momenti di purificazione e di confronto in cui, nell’atmosfera festosa e conviviale di danze e musica, gli anziani raccontano storie e trasmettono ai giovani la loro cultura affinché non vada perduta. Di fatto il loro isolamento, unito al rispetto da parte di tutti delle tradizioni, ha mantenuto integra la cultura Kalash al punto che, secondo gli esperti, le loro credenze sono pressoché le stesse di oltre duemila anni fa.
Interessante, in questo contesto, la condizione della donna in relazione all’uomo che rappresenta uno degli elementi di scontro con il circostante mondo mussulmano. Le donne Kalash non indossano il velo, scelgono liberamente il proprio marito, hanno la facoltà di divorziare e a differenza degli uomini - che fatta eccezione per un ornamento sul pacal, il copricapo universale usato nelle valli, vestono alla stessa maniera dei mussulmani - indossano il costume tipico noto come shalwar kameez, un abito nero stretto in vita da una fascia colorata, ampie collane di perline attorno al collo e un cerchio di tessuto con conchiglie cipree e monete sul capo. Pur non essendo mussulmani, i Kalash accettano e praticano liberamente la poligamia e sia gli uomini che le donne possono convolare liberamente a seconde nozze. Unica nota un po’ stridente in tutto ciò è la presenza nei villaggi Kalash del Bashali, un luogo di ritiro per le donne durante il ciclo mestruale – perché ritenute impure – e nei giorni finali della gestazione. Di fatto il parto è un momento legato unicamente all’universo femminile a cui gli uomini non possono assistere.
Peculiare anche il rapporto con la morte che per i Kalash è una semplice “conclusione del viaggio” e l’accolgono più con gioia che con dolore. Non sotterrano i loro cari ma li depongono all’interno di massicce bare di legno lasciate all’aria nei boschi di agrifogli che fungono da cimiteri.
La domanda sorge spontanea. Un’etnia come quella dei Kalash che è riuscita a preservare la sua identità e le sue tradizioni nonostante si trovi nel cuore di un mondo islamizzatosi più di mille anni fa, riuscirà a resistere alla globalizzazione? Noi ci auguriamo di si e voi? Che ne pensate?
Diana Facile