Etiopia – Il Salto del Toro: diventare uomini nella valle dell’Omo

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Non era solo un viaggio. Era un richiamo. Quello che mi ha spinto fin laggiù, nel cuore del sud dell’Etiopia, non è stata la semplice curiosità geografica. Era la voglia, urgente e quasi viscerale, di incontrare culture che il mondo moderno sta velocemente cancellando. Tradizioni millenarie, volti antichi, riti che resistono ostinati al tempo. E tra tutte le popolazioni della valle dell’Omo, una in particolare mi ha colpito al cuore: gli Hamar.

Hamar, il popolo della soglia

Pastori e agricoltori, con una forte identità comunitaria e una bellezza fiera. Sono oltre 50.000, sparsi tra villaggi remoti e sabbiosi. Li avevo letti, studiati, immaginati. Ma vederli, toccare con mano il loro mondo, è stato un privilegio raro.

Ci trovavamo a Turmi, punto di partenza per inoltrarci nei villaggi. Qui la guida ci sussurra con un sorriso: “C’è una cerimonia oggi. Il salto del toro. Se volete, possiamo provare ad andarci.” Non era garantito. Nulla è previsto. Il rito viene deciso dalla famiglia del giovane, in base anche alle disponibilità economiche. Ma quel giorno, la sorte ci ha detto sì.


Verso il villaggio, tra polvere e attesa

La strada verso il villaggio era tutt’altro che comoda. A un certo punto abbandoniamo le piste e proseguiamo nel letto secco di un fiume. Attorno a noi, piccoli gruppi di Hamar camminano a piedi, abiti tradizionali e sguardi fieri. Sono familiari, amici, compagni che si stanno recando alla cerimonia. La nostra guida aveva già predisposto il “regalo” per il giovane: un gesto indispensabile per essere ammessi. Non è turismo. È partecipazione.

Quando lasciamo la Land Cruiser per proseguire a piedi, il sole è alto e il caldo è quello del Sud. L’arrivo al villaggio è preceduto da canti lontani e suoni di tamburi. La pelle inizia a vibrare.


La violenza del legame

Nel villaggio, un gruppo di giovani donne nubili danza. I movimenti sono decisi, lo sguardo fiero. Gli uomini, più in disparte, siedono all’ombra di una struttura fatta di legno e pelli. Un distillato giallognolo di miglio fermenta in grandi anfore. L’atmosfera è tesa, sospesa.

Poi, un gruppo di donne si allontana. Le seguiamo in silenzio fino a una radura. Lì, assistiamo a qualcosa che ci spiazza: si fanno frustare, volontariamente. Chiedono ai "frustatori" di colpirle. È il loro modo di dimostrare lealtà, amore, dedizione al giovane che sta per diventare uomo. Le cicatrici che porteranno sul corpo saranno testimonianza eterna di quel momento. Doloroso, crudo, ma profondamente vero.


Ocra, latte e tori: il passaggio

Tornati nel villaggio, uomini e donne si fronteggiano in danze. I volti sono truccati di bianco e ocra, le emozioni si leggono negli sguardi. Il ragazzo, protagonista della giornata, si cosparge il corpo con sterco bovino per buon auspicio. Due ciotole vengono versate: una d’acqua, l’altra di latte. I simboli della vita.

Poi arriva il momento. Nudo, senza nulla se non il coraggio, sceglie sette tori. I parenti li affiancano tenendoli con forza. Silenzio. E all’improvviso corre, balza, li attraversa. Cade? No. Torna indietro e lo rifà. Tre, quattro volte. Quando finisce, è un uomo.


Vorrei essere ancora lì

Il sole tramonta sulla valle. Il cielo si accende di arancio e silenzio. Mentre torniamo a Turmi, mi accorgo di avere ancora il battito accelerato. Non è stato solo assistere a un rituale. È stato varcare una soglia anche per noi. È stato sentirsi ospiti in un mondo dove il tempo ha ancora un altro ritmo.

Rivedo gli occhi delle donne, il canto, le cicatrici, il salto. E penso: vorrei essere ancora lì. Perché ci sono viaggi che non finiscono al ritorno. Restano dentro. E cambiano per sempre il modo in cui guardiamo il mondo.


Dal racconto all’esperienza: il tuo salto nella realtà

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